Paysage D’Hiver – “Kerker” (1999)

Artist: Paysage D’Hiver
Title: Kerker
Label: Kunsthall Produktionen
Year: 1999
Genre: Noise/Black Metal
Country: Svizzera

Tracklist:
1. “Tiefe”
2. “Schritte”
3. “Schatten”
4. “Gang”

Ogniqualvolta si tenti di giustificare un ritardo, l’incredibile quantità di energia e di creatività che si spende nell’intessere scuse su scuse e nell’arrampicarsi sugli specchi è il più delle volte spropositata. Raramente si sente un tale impulso creativo, di una forza così tangibile da dar prova della propria tensione verso l’invenzione, il giustificazionismo e, talvolta, anche verso la menzogna. Il pur deprecabile ritardo di chi scrive sulla tabella di marcia prevista per la trattazione in oggetto, tuttavia, non si dilungherà in un ulteriore prolisso sproloquio; ma se ne sono voluti tracciare i tratti essenziali non a caso. Al contrario, pare funzionale lo sforzo proprio perché accostabili a quelli che, seppur cambiati di segno, contraddistinguono la tensione creativa e precorritrice che contraddistingue l’oggetto del mio indugiare: “Kerker”, il quarto demo (per così chiamarlo) firmato Paysage D’Hiver. Ed ecco che, nel considerare la pubblicazione dedicata a questo capitolo di Darkest Past non posso non ricadere nel bisogno di giustificare il ritardo di questo scritto: in effetti, si tratta di un disco difficile; un disco difficile per come è stato concepito, un disco faticoso da ascoltare nonostante la benedetta brevità; un disco complicato da inserire persino nell’estemporanea discografia della one-man band svizzera. Ma opere quanto mai difficili richiedono talvolta approcci semplici, fatti di letture sì reiterate ma da prima superficiali, e pochi punti di vista diversi che, incrociandosi tra loro, consentano di costruire quale inizio una buona visione d’insieme.
Per intraprendere una strada propria, qui più che altrove nel mondo Paysage D’Hiver, vi occorrerà quindi una compagna di viaggio che vi conduca nelle segrete di questo mondo. Così che, da lì, possiate poi proseguire come volete.

Il logo della band

Partiamo dall’analisi del dato più immediato che si deve tenere in considerazione quando si scava nel passato per riascoltare e contestualizzare un disco oggi pluriventennale: la data d’uscita. Stando alle fonti più attendibili -e cioè agli smanettoni che aprono e chiudono continuamente i faldoni virtuali sulla band per poter aggiornare i loro inventari digitali-, “Kerker” esce in un non meglio specificato o determinato 1999: lo stesso anno, presumibilmente, della formazione dell’allora side-project di Wintherr, i Darkspace. Si potrebbe quindi anche presumere che, in luce di ciò, lo sforzo “Kerker” sia in qualche maniera l’antesignano di un approccio a cui Wintherr non avrebbe potuto resistere, e che avrebbe sviluppato più diffusamente di pari passo, da qui in poi, con l’altra band.
Ora, due considerazioni: per punto primo, forse appare un po’ svilente considerare l’apporto di un disco strettamente in rapporto uno a due (dove la seconda cifra presuppone anche un giudizio di valore maggiore) con un altro; in secondo luogo, non è certamente questa la sede in cui ricercare le origini di un (altro) gruppo, che nemmeno è effettivamente l’autore del lavoro preso in esame.
Il rapporto eventuale con la nascita dei Darkspace, quindi, appare forse evidente ma assolutamente non necessario. Si tratta certamente di una piacevolissima conseguenza (musicalmente peraltro riconfermabile nel cuore di “Schritte”), ma non di una base su cui apprezzare o meno un disco uscito (forse per caso) nello stesso anno in cui tre anime si sono messe attorno ad uno stesso fuoco cosmico.

Wintherr

Analizziamo dunque le ragioni che rendono seriamente difficile questo progetto di quaranta minuti scarsi fattisi suono, a prescindere dalla prossimità con il terzetto spaziale. Il suono di “Kerker” è in effetti rumore: un rumore sordo, bianco e tonante il cui ordine sotterraneo -un tratto distintivo del genius di Wintherr– è più recondito che mai. Mai prima, nella tripletta di nastri sperimentali rimandati fino al 1998, fu così caotico – e mai più lo sarebbe stato. Sin dalla scelta produttiva di adottare uno stile di registrazione che definire estremamente lo-fi è un puro eufemismo (benché presente, per carità, sin dalla prima uscita Paysage D’Hiver), il rumorismo che permea ogni aspetto dell’album è un buon punto di partenza per rintontire i timpani anche tra quelli più avvezzi a questa musica. C’è tuttavia una scelta consapevole nel mixaggio, fattasi forte dalle precedenti uscite sperimentate fino all’inizio del precedente anno tra Black Metal, il caro dipanarsi Ambient e persino la pesantezza tonale del Death, e che qui -forse per la prima volta- diventa a tutti gli effetti calcolata, preterintenzionale e calibrata molto oltre al cliché del genere che vuole essere il più rumoroso nel panorama della musica cosiddetta dura. Le voci sono sepolte in profondità, in uno spazio-tempo remoto che sfugge ad ogni tentativo di ascolto e discernimento. Con questo escamotage, Tobias mette in musica la tensione verso l’ignoto e l’irraggiungibile, il disumano e l’invalicabile confine tra mondi: quello che divide l’uomo dalla bestia, quello che annulla l’individuo sotto una massa nevosa indistinta, come in “Steineiche”, “Schattengang” e soprattutto “Die Festung”, chiaramente, quanto avviene nei meandri di un buco nero per “Kerker” – in fondo, cosa cambia? Ciò che avvicina qui “Kerker” ai primi Darkspace non è però soltanto lo stesso principio teorico, ma una vena più spacey che sembra far brillare ulteriormente in una nebulosa tetra ciò che rimaneva invece gelido e invernale nelle altre uscite firmate Paysage D’Hiver. Ed è quando si accetta di venire travolti da questa tormenta cosmica che si è in grado di opporsi alla staticità del mondo percepibile quotidianamente: da quello spazio che sentiamo reale e vicino solo perché percepibile con mezzi e strumenti a portata di cinque sensi. Il rimbombare del rumore sembra schiantarsi contro le pareti di una prigione sotterranea nella non casualmente intitolata “Schatten”, cercando di coprire in tutti i modi e rimbalzando continuamente da una superficie all’altra la musica sottostante; un ordinato sistema di note in armonia che, saltuariamente ma per segmenti, sembra ‘scaldare’ questa superficie ghiacciata.
Continuiamo con la nostra analisi per gradi, spostandoci dal primo strato (il rumore, appunto) al secondo: il freddo. Come già messo in evidenza altrove, il freddo glaciale oltre la sopportazione umana è per Wintherr metafora per eccellenza del vuoto che sentiamo dentro, della forza che ci sovrasta e ci stritola a prescindere dal volto che abbiamo. Ora, un curioso parallelo: il risaputo affetto che i Darkspace nutrono per Giger non può non far pensare che queste segrete qui descritte dal Möckl siano una versione in miniatura per così dire terrena di LV-426, un pianeta roccioso senza sole, dimenticato da ogni dio, dove brutali venti non smettono mai di soffiare e le rocce frastagliate segnano la fuga verso dimensioni atemporali. Uno spazio altamente denso, freddo, inospitale dati i suoi volumi disarticolati e spigolosi. Nel celebre Alien, Acheronte, il fiume infernale dantesco, dà il nome alla luna su cui vengono rinvenute per la prima volta forme di vita aliene; dove, in altre parole, avviene il contatto tra bestia e uomo. Rimane quindi da chiedersi se tale adiacenza e vicinanza avvenga o meno anche in “Kerker” (tentativo numero due di liberarsi dalla maledetta e congenita voglia di arrampicarsi sugli specchi).
Scendiamo così nel prossimo ed ultimo girone, ricapitolando quelli appena esplorati, giusto per non perderci: anno di uscita, strato superficiale (rumore), strato sottostante (freddo), ultimo strato – sotterraneo (contatto?). Volendo rimanere fedeli ad una lettura tanto stratificata quanto volutamente semplice, gli ultimi elementi da considerare sarebbero infatti i testi: enigmi nell’oscurità, dal canto loro, che hanno tuttavia la presunzione di farsi da portavoce indiscutibili -e vettori da sponda veicolare a sponda ricettiva- del credo dell’autore (ma noi siamo forti, perché abbiamo già sceso un bel po’ di scale).
Dunque, se le nostre segrete sono divise (ovviamente) in più piani, in più stadi che seguono il percorso dell’animo incarcerato il quale, sepolto così in profondità, non riuscivamo dapprima a scorgere in mezzo al rumore, allora il primo piano (cioè quello più esterno, quello più alto, quando si scende) è dedicato all’orrore; un orrore scolpito nella roccia dove l’oscurità si insinua lungo le pareti buie di celle vuotate dal sentimento e dal calore, abbracciato da una tenebra che lo trasforma in roccia spigolosa. Proseguiamo il cammino seguiti da alcuni passi, il suono dedicato al secondo brano. Questo procedere affannato sta cercando di essere liberato dagli spigoli della roccia informe, così inospitale da rimandare ai profili appuntiti di remote cime montuose (ritorna, immancabile, la metafora della montagna rocciosa come spazio ideale d’inospitale mancanza di umanità che tende verso l’alto, qui non casualmente rovesciata). L’aria è densa e i volumi si fondono tra loro in un’accozzaglia informe e appuntita; la disperazione del prigioniero lo convince lentamente che tutto il (suo) mondo sia assolutamente deforme e privo di senso. Questo suo spazio angusto lo fa scendere ancora più in basso, facendogli cioè raggiungere la consapevolezza che il segreto di cui quelle rocce si fanno gelose protettrici sta nella certezza che l’unica presenza, l’unica compagnia su cui può contare, è quella delle ombre: proiezioni buie sulla roccia che rassomigliano giocosamente forme dai contorni confusi, contorcendosi e scivolando tra le dita lunghissime e ossute che consumano tutta l’umanità del prigioniero. Con quelle dita, forte nelle sue convinzioni, incomincia a intessere una qualche connessione con l’infinità dell’universo (con i pianeti, nell’infinità dell’universo, per essere filologici).
Cosa c’è qui di più indiscutibilmente chiaro della propria ombra? Cosa c’è di più certo, di più fedele? Eppure, come può l’ombra distinguersi dalla nera roccia che racchiude questo infernale labirinto? Scendiamo al quarto livello, dedicato ad una marcia, ad un corridoio che con la sua maggiore musicalità (da prendersi con le pinze, ovvio) mette in dubbio la reale presenza di quelle segrete e di quel lento procedere. Forse, in fin dei conti, questo cammino in profondità tiene fermo il prigioniero, paralizzandolo nella propria immobilità dentro il grande disegno dell’universo, dove il cammino del dolore si perde oltre la gloria delle ombre. A questo punto, direi che il contatto è in ogni caso avvenuto.

L’unione dei vari livelli che abbiamo percepito non solo ci aiuta a seguire il percorso introspettivo e sotterraneo dell’animo incarcerato, ma anche ad accompagnare un ancora oggi difficoltoso ascolto nella scansione dei vari passaggi che segnano “Kerker”, e nella lettura dei livelli che, insieme, danno vita alla profondità del suo rumore, il nostro punto di partenza. Con questi pochi e chiari concetti, in una nebulosa di pensieri, può apparire più che chiara la via che distanzia e che avvicina al contempo un’opera come “Kerker” dall’idea stessa che può aver generato i Darkspace. Un grande pensatore, del resto, può liberarsi dal carcere del proprio corpo lasciandolo incatenato tra la nuda roccia sottoterra, o permettendogli di fluttuare senza peso nell’infinità dello spazio. La cosa che effettivamente cambia pare essere la risonanza: l’eco lontana e sorda che si perde audiolesionante in uno spazio che non riesce a riempire non ha nulla a che vedere con il trascinarsi di un rumore cavo lungo i gradini di un labirinto sotterraneo che cade, deformandosi, sugli spigoli appuntiti della roccia. Se da un lato, quindi, troviamo un buon amalgama di rumore bianco che racchiude in sé degli elementi armonici richiamanti da lontano una presenza cosmica onnisciente, dall’altro “Kerker” è un sistema di condotti e piani perfettamente indistinguibile, ma composto da livelli che sono percepibili, benché tali solo con un buon allenamento e le giuste chiavi. L’ironia della sorte ha voluto, anche questa volta, che il destino di questo nastro finisse per rompersi e perdersi in un boato lontano sull’ultimo gradino della nostra scala sotterranea di riscoperte; ma come sempre accade dopo aver sentito un rumore simile, si sta all’erta in un lunghissimo silenzio di pochi secondi, in attesa di risentire, con deprecabile e appassionata impazienza, quello stesso dannatissimo rumore dagli abissi.

Sara “Vesperhypnos” Cönt

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